I CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA A VITERBO

Nel trattare le vicende delle famiglie che costituirono l’élite urbana della Viterbo medievale, alcuni autorevoli storiografi locali attribuiscono alla casata dei Gatti una possibile ascendenza francese o, per meglio dire, brettone. Ampiamente ripresa anche dalla pubblicistica più recente, questa ipotesi trae fondamento, pressoché unicamente, dalla egemonica appartenenza dei Gatti alla fazione duecentesca “dei Brettoni”. Questa circostanza, di per sé, ha consentito di elaborare una suggestiva teoria seconda la quale il singolare appellativo indicava ab origine la sola famiglia, rivelandone le antiche radici transalpine, per poi finire con l’essere distintivo dell’intera coalizione.

In realtà questa ricostruzione è priva di fondamenti storici e documentali. Una disincantata indagine delle fonti dimostra che non furono i Gatti a trasmettere l’appellativo familiare alla fazione, semmai il contrario.
Dalle Cronache quattrocentesche apprendiamo che il clan dei Brettoni compare per la prima volta con riferimento alle guerriglie intestine che insanguinarono la città tra il 1218 e il 1240. Si trattava di una fazione ancora indefinita, della quale non vengono nominati né i gerenti né gli apparentamenti; nella narrazione degli eventi si menzionano genericamente “li gentilomini Bertoni” o “quelli di casa di Brectoni” che si contrappongono alla famiglia filo romana dei Cocci: “Anno domini 1224. … el potestà fe’ tornare in Viterbo Nicola di Ioanne di Coccho e fello pacificare con li Brectoni. La qual pace non durò troppo”.

Ebbene, in questa prima fase, non si riscontra alcun richiamo ai Gatti (*) né alla loro supposta supremazia. Non solo, poiché le Cronache registrano frequenti schermaglie tra i Cocci e la famiglia degli Alessandri, è possibile che fosse proprio quest’ultima a capeggiare la fazione compostasi sotto il vessillo dei Brettoni: “Anno 1227, Nicola di Ianni Coccho e suo fratello … andarono a casa di Ullando di Pietro d’Alexandro, e con un coltello lo ferirno nella gola e ferirno Ghezone di Sperante e allora fu fatta gran battaglia tra l’una parte e l’altra per le torre e per terra … Poi nel mese di febraio … li Brectoni dectero la battaglia alla torre di Bartolomeo di Panza … et Nicola de Coccho vidde non posser ristare contra li Brettoni, di nocte tempo lassò la torre e la casa sua”.
La mancata menzione dei Gatti durante questi tumultuosi frangenti non deve stupire. Essi, infatti, non appartenevano all’originaria aristocrazia cittadina e l’inizio della loro ascesa sociale va ricondotto tra la fine del XII secolo e l’inizio del successivo. Sono questi gli anni in cui Rollando di Verarduccio († 1226 ca.), il capostipite della famiglia, consolida il suo patrimonio grazie ad una lucrosa attività di usuraio gettando le basi per l’espansione economica e politica dell’intera sua discendenza: da un atto del 1217, sappiamo che Rollando lasciò ai figli Verardo, Leonardo e Bartolomeo la bellezza di 1.500 libre, oltre 20 case, 3 palazzi con turris, un mulino, alcuni portici, cantine, stalle, orti e una apotheca.
Nei primi anni del ‘200, per rafforzare la propria posizione e meglio tutelare i propri interessi, alcuni membri della famiglia si coalizzarono con i già affermati Alessandri e con altre consorterie sotto il comune nome di Brettoni; la famiglia iniziò così a guadagnarsi un ruolo attivo, sebbene ancora anonimo, nella lotta tra fazioni. Di questa acerba adesione resta un’evidente traccia nelle Cronache laddove si riferisce che nel 1223, dopo una cruenta battaglia, i Brettoni persero una torre chiamata “Petrella”, edificio questo che negli archivi medievali risulta appartenere proprio ad uno dei figli di Rollando. 
Il nome dei Gatti associato ai Brettoni compare esplicitamente nelle Cronache (e unicamente in Della Tuccia) solo a partire dal 1243 a proposito di “un gentil’uomo di casa Bertoni chiamato Raineri Gatto” che protestò contro il podestà voluto dall’imperatore Federico II: si tratta del celebre Raniero Gatti, nipote di Rollando e figlio di Bartolomeo.

Sebbene tardo, l’avvento dei Gatti sulla scena politica fu comunque dirompente e inarrestabile, tanto che dalla metà del XIII secolo i nipoti di Rollando si affermarono come protagonisti assoluti sia della fazione che della intera vita municipale. E’ solo a questo punto che l’appellativo “Brettoni”, persa la sua originaria valenza denotativa della coalizione, inizierà ad essere identificativo della sola componente gattesca.
Questo processo di immedesimazione raggiunse il compimento allorché alcuni membri della famiglia iniziarono ad associare al loro nome il gentilizio “de Brectonibus”: ad esempio, Visconte Gatus de Britonibus e Guercius Rollandi de Brictonibus. Particolarmente significativa di questa mutazione è l’epigrafe commemorativa della loggia del palazzo papale (1267), dove si celebra Andrea di Veraldo Gatti evocando la sua appartenenza alla “generosa stirpe dei Brettoni” (Britonum generosa propago).
Per dissipare, ulteriormente, ogni dubbio circa l’infondatezza della teoria che vuole i Gatti provenire dalla Bretagna, basterà ripercorrere le ricorrenze onomastiche della famiglia per constatare l’assenza assoluta di nomi ascrivibili alla tradizione brettone. Si tratta, per lo più, di nomi che ritornano frequentemente nei documenti medievali viterbesi (ad esempio, Verardo/Berardo, Rollando, Raniero, Bartolomeo, Leonardo e Andrea) e che, semmai, hanno un’origine germanica o franca. Stesso risultato insoddisfacente si ottiene aderendo alle tortuose teorie di certi autori (Mario e Giovanni Signorelli) che ricostruiscono una più antica ascendenza della famiglia, fino a risalire a un tale Rollando Martello, vissuto intorno alla metà del XI secolo: nulla che colleghi il presunto avo alla lontana penisola francese.

A cosa ricondurre, allora, la denominazione “Brettoni” che contraddistinse la fazione? Escluso un pedigree brettone, oltre che per i Gatti, anche per le altre famiglie eminenti che componevano la coalizione (Alessandri, Speranti, Rispampani, ecc. …), non resta che provare ad esplorare un nuovo campo di indagine che prescinda dall’ostinata necessità di trovare un nesso con il “luogo geografico” Bretagna.
Tra il XII e XIII secolo, in tutt’Italia ebbe ampia circolazione quell’insieme di narrazioni fantastiche e cavalleresche d’origine francese ed anglonormanna che oggi classifichiamo come “matière de Bretagne”. Si tratta di un complesso di racconti che descrive le inestricabili avventure di cavalieri, dame e maghi sullo sfondo del mitico regno di re Artù e della sua corte.
Prima ancora che nella forma scritta del poema e del romanzo (l’autore più importante fu Chrétien de Troyes, della fine del XII secolo), queste storie giunsero in Italia attraverso le novelle e le rime dei poeti erranti o le ballate dei menestrelli. Il primo riferimento letterario italiano alla materia bretone (in particolare le vicende di re Artù e la vita di Merlino) si trova nel Pantheon di Goffredo da Viterbo (scritto tra il 1186 e il 1191), direttamente ispirato all’Historia Britonum del vescovo inglese Goffredo di Monmouth.
Le composizioni bretoni incontrarono grande e duratura fortuna soprattutto tra la nobiltà e la borghesia in ascesa, ambienti particolarmente sensibili ai temi cortesi e mondani, ma anche all’elemento mistico della quête, l’esperienza individuale della ricerca del proprio destino e della propria identità attraverso il superamento di prove e dolorosi percorsi (emblematico il personaggio di Parsifal).
In Italia meridionale i propagatori naturali della materia bretone furono i conquistatori Normanni. Non a caso è la Sicilia la terra in cui si sviluppa, contaminata da elementi della tradizione germanica, la chimerica leggenda che vede Artù, mortalmente ferito in battaglia, rifugiarsi sul monte Etna. Il primo a riportare la leggenda fu il letterato Gervasio da Tilbury, che molto viaggiò per l’Italia e fu ospite la corte normanna di Sicilia (probabilmente fu anche a Viterbo nel 1209, al seguito di Ottone IV); nei suoi Otia Imperialis racconta di aver appreso direttamente dagli abitanti dell’isola che: “essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte [dell’Etna], il grande Arturo … ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite”.


Questa storia doveva essere particolarmente radicata nella tradizione popolare, anche oltre le regioni del sud, tanto che la ritroviamo ripresa nelle rime farsesche della poesia “Detto del Gatto Lupesco”. Scritta da un anonimo autore toscano del XIII secolo, si tratta di una parodia in versi dei viaggi e dei pellegrinaggi medievali; tra i vari personaggi descritti vi sono due “cavalieri di Bretagna” che raccontano di essere stati sull’Etna alla ricerca di Artù, ma che, non avendolo trovato, se ne tornano nel loro “reame d’Inghilterra”.

Questi ultimi esempi narrativi sono solo la rielaborazione in chiave “mediterranea” di un elemento già presente nella tradizione arturiana anglo-normanna, quello dell’attesa del ritorno del re bretone: egli non è morto dopo l’ultimo combattimento contro i Sassoni a Camlan, ma è sopravvissuto in un luogo magico e recondito (il regno di Afallach nella tradizione gallese e l’isola di Avalon o Insula Pomorum per Goffredo di Monmouth) e, in un giorno futuro, farà improvvisamente ritorno per ristabilire la sorte del suo popolo vinto e diviso. La lunga e paziente attesa dell’eroe, temporaneamente rimosso dal mondo, divenne nell’immaginario medievale sinonimo di un’illusoria aspettativa di riscatto, tanto da dar vita a locuzioni proverbiali molto popolari, come arturum expectare o “speranza brettone”.

Quali siano stati il percorso e la forma con cui arrivarono in Italia, le leggende bretonidivennero presto familiari e s’imposero ovunque come rappresentative di alcune tematiche universali (la dignità cavalleresca, l’amore fatale, la ricerca iniziatica, il ritorno dell’eroe dormiente, ecc.). Affermazione che, non v’è motivo di dubitarne, si registrò anche nelle nostre contrade. Se ne trova eco persino nelle Cronache cittadine dove, nel riportare gli antefatti epici della fondazione di Viterbo, si asserisce che la Tuscia fu colonizzata dai discendenti di Iafet, il figlio di Noè che “primamente arrivò in Inghilterra e lì vi edificò Londres e Camellot”: quest’ultima è la mitica corte regale di Artù celebrata nei romanzi francesi del XII e XIII secolo.
I personaggi della saga dovettero esercitare una profonda suggestione specialmente tra i giovani delle famiglie signorili viterbesi; per essi fu normale far proprie quelle storie di combattimenti e di travagliate avventure che, seppure ambientate in una Britannia di fantasia, richiamavano loro le lotte e gli antagonismi presenti nel contesto politico municipale. Quando all’inizio del Duecento presero forma le prime fazioni cittadine, coloro che si coalizzarono attorno agli Alessandri non ebbero difficoltà a rispecchiarsi nei cavalieri della corte arturiana, dai quali mutuarono l’evocativo nome di Bretoni. E Modred, il nipote di Artù alleato degli invasori sassoni, fu il naturale archetipo del traditore nel quale identificare i nemici del loro tempo, la famiglia dei Cocci, la quale non aveva esitato a scendere a patti con Roma pur di assicurarsi l’egemonia su Viterbo.
Alcuni decenni più tardi i Gatti, con la loro indole indomita, incarneranno appieno il ruolo di paladini del Comune contro un nuovo dominatore straniero, l’imperatore Federico II, e a buon titolo s’impossesseranno del leggendario appellativo.
di Ser Marcus de Montfort
____________________________
(*) Per rendere più semplice questa breve dissertazione utilizzerò l’appellativo Gatti senza preoccuparmi di anacronismi e approssimazioni. In realtà, il cognome/soprannome Gatti compare solo dalla seconda metà del Duecento (come patronimico derivato da Raniero GATTUS) ed indicava il solo ramo familiare di Bartolomeo Rollandi. Prima di allora e per gli altri suoi rami, la famiglia sarebbe dovuta essere indicata come Veralducci, dal nome di quel Veraldo da cui, nel XII secolo, ebbe origine la schiatta.
 

 
 
 

Informazioni aggiuntive