LE MONACHE DI S. MARIA IN VOLTURNO

DALLA CASA DELLE CISTERCENSI AL MONASTERO DELLE MANTELLATE
Poco prima di entrare in piazza della Trinità, sulla sinistra inizia la discesa lastricata in sampietrini di via S. Maria in Volturno; il nome di questa stradina è l’unica memoria che oggi sopravvive di uno dei più importanti monasteri femminili della città di Viterbo, completamente demolito tra il 1949 e il 1951 per far spazio ad un nuovo quartiere residenziale.

La prima menzione del cenobio di S. Maria in Volturno risale al 1403[1]ed è riferita ad uno sparuto gruppo di cistercensi che si era sistemato presso una casa ai margini del rione di S. Faustino, non lontano dalla cosiddetta Porticella, una delle più antiche porte della città medievale che fu demolita alla fine del ‘500 per consentire la realizzazione di “Strada Maggiore”, l’odierna via S. Maria Liberatrice.


Quelle poche monache provenivano da un monastero nei dintorni di Ferento, abbandonato perché troppo solitario ed esposto alle scorribande dei briganti; la loro condizione nella nuova dimora viterbese doveva essere tutt’altro che florida, tanto che nel 1439 le tre consorelle superstiti, ridotte pressoché in miseria, invocarono l’assistenza e la protezione del Padre Generale degli Agostiniani: “paupertalem, necessitatali et indigentiam ad supplicandum, petendum et optinendum gratias, privilegia, subventiones ac recommendationes ad bonificationem, protectionem et manutentionem dicti monasterii”[2].

Le loro suppliche furono accolte e si decise allora di unirle ad una famiglia di terziarie agostiniane[3] che già da alcuni anni si erano raccolte in una domus vicina al convento maschile della Trinità[4].

Il Terz’ordine femminile agostiniano era stato formalmente costituito nel novembre 1399 con la bolla In sinu Sedis Apostolicae; con essa il pontefice riconosceva quelle comunità di pinzochere che, pur continuando a vivere nel secolo, si rifacevano all’osservanza della regola agostiniana: “quascumque mulieres in mantellatas seu pinzocheras dicti Ordinis recipere ac earum singulis habitum regularem et regulam eiusdem Ordinis etiam exhibere”.
Le “mantellate”, così erano anche chiamate le terziarie agostiniane, presero possesso del modesto ricovero delle cistercensi adattandolo a loro nuova sede;[5] l’alienazione venne confermata da papa Alessandro VI con bolla del 13 febbraio 1499: “sororum Mantellatarum nuncuparum monasterii s. Marie in Volturno Viterbiensis sub regula Sancti Augustini viventium.

Le religiose crebbero di numero e il piccolo monastero, che pure era già dotato di una cappellina dedicata alla “Purificazione”, si mostrò presto insufficiente e inadeguato. Nel 1510 si diede quindi inizio alla costruzione di un nuovo edificio claustrale e di una vera e propria chiesa.

Per finanziare l’opera nel 1511 il cardinale Egidio Antonini, Generale dell’Ordine Agostiniano, autorizzò la vendita di alcuni immobili; da un rendiconto dell’anno successivo risulta che le monache avevano già speso 341 ducati. Il 18 settembre 1514 papa Leone X contribuì al sostentamento della comunità concedendo l’indulgenza per la festività della Purificazione[6] e confermando il possesso della selva di Boturno che rendeva 206 ducati l’anno; nel 1534 Pacifica Antonini, che trascorse gli ultimi anni di vita nel monastero, devolvette alla fabbrica ben 500 scudi dell’eredità ricevuta alla morte del fratello cardinale Egidio.[7]
Intorno alla metà del ‘500 il nuovo complesso monastico di S. Maria in Volturno con l’annessa chiesa potevano dirsi pressoché completati.


LA BREVE STORIA DELLE TERZIARIE DI S. PERPETUA E FELICITA

Dalla seconda metà del XV secolo si assiste ad un continuo fiorire di pie case di religiose che, in alcuni casi, costituirono il nucleo di futuri monasteri femminili. La crescente richiesta di entrare in convento da parte delle donne era solo in parte frutto di un concreto aumento di vocazioni sincere; per lo più si trattava di una scelta di ripiego per giovani senza dote o vedove in difficoltà; altre volte erano delle vere e proprie monacazioni coatte imposte dai genitori che volevano, in questo modo, preservare l’integrità del patrimonio familiare per i figli maschi.

A Viterbo i gruppi bizzocali più numerosi erano quelli costituiti da terziarie francescane; alcune di queste si sistemarono nel vecchio convento armeno dei Ss. Simone e Giuda, altre presso la casa donata da Pietro di Juzzo Scricco[8] e altre ancora in una edificio vicino piazza S. Salvatore, dal quale ultimo ebbe origine il famoso monastero di S. Bernardino. Le terziarie servite, invece, vivano accanto ad un oratorio confinante con S. Rosa e nel 1502 si spostarono in contrada S. Matteo dell’Abate dove edificarono il monastero di S. Maria della Pace. Le domenicane si raccolsero in due domus aperte, una in contrada S. Martino e l’altra in piazza S. Tommaso, ma intorno al 1520 si trasferirono nel nuovo monastero di S. Domenico[9]. Altra fondazione domenicana fu quella di S. Caterina, voluta all’inizio del ‘500 dall’iniziativa di alcuni facoltosi viterbesi e che acquistò grande rinomanza per aver ospitato Vittoria Colonna.

Quanto alle agostiniane, oltre a quelle di S. Maria in Volturno, esistevano altre terziarie che avevano deciso di vivere ritirate sempre in una casa nelle vicinanze del convento della Trinità.[10] 
La loro comunità prese il titolo di “monastero delle Sante Perpetua e Felicita”, dal nome delle due giovani martiri del III secolo il cui culto ebbe straordinaria diffusione grazie alla predicazione di S. Agostino, che dedicò loro alcune memorabili omelie.
Nel 1534 le agostiniane di Ss. Perpetua e Felicita erano in numero di diciotto[11] e nel 1544 venne ampliato il loro dormitorio.
Nel volgere di appena vent’anni, il Generale degli Agostiniani ritenne ingiustificata e troppo onerosa la coesistenza dei due cenobi, praticamente confinanti; quindi nel 1555 ordinò la soppressione di quello di Ss. Perpetua e Felicita, aggregando le sue monache a quelle del “più sano” monastero di S. Maria in Volturno.


IL MONASTERO DI S. AGOSTINO

Fino alla prima metà del XVI secolo, gran parte dei monasteri femminili avevano costanti rapporti con l’esterno e le religiose, soprattutto le terziarie, potevano normalmente incontrare e visitare i parenti e uscire dal chiostro per questuare il necessario al proprio sostentamento. Tuttavia, in pieno clima di Controriforma, questi contatti con il mondo secolare vennero additati come motivo dei disordini e degli scandali che si registravano con una certa frequenza presso i conventi. Sulla scia delle decisioni adottate dal Concilio di Trento, il 29 maggio 1566 papa Pio V emanò quindi la bolla Circa Pastoralis che imponeva la clausura anche alle terziarie di qualsiasi ordine.[12] Inoltre, con la bolla Deo sacris virginibus del 1572, papa Gregorio XIII ebbe a prescrivere la clausura anche per tutte le converse, ossia quelle religiose che professavano i soli voti semplici e che, appartenendo a classi sociali inferiori, si occupavano prevalentemente delle faccende domestiche del monastero.

Tutti questi provvedimenti ebbero però l’effetto di togliere alle monache la possibilità raccogliere elemosine e donazioni, con il conseguente rischio di depauperamento di alcune comunità. Per fronteggiare questo pericolo, gli stessi decreti conciliari[13] avevano previsto che ciascun monastero ammettesse nuove professe solo se in grado di mantenerle attraverso le risorse economiche di cui disponeva. Precetto che, in sostanza, legittimò la prassi di richiedere alle religiose una «dote» al momento del loro ingresso in convento.

Di conseguenza, a partire dalla seconda metà del ‘500, i chiostri divennero accessibili alle sole donne che avevano il minimo necessario per farsi accettare almeno come converse; a coloro che erano prive di denaro non restava che sperare in qualche generoso atto di contribuzione da parte di privati o delle confraternite.

A Viterbo le varie disposizioni pontificie e conciliari furono eseguite nel 1574 dal vescovo Cardinale Giovanni Francesco Gambara che, secondo la capacità delle strutture e l’entità delle rendite disponibili, fissò il contingente massimo di monache da accettare per ogni convento femminile cittadino: per S. Rosa il limite era di 50 religiose, per S. Caterina 45, per S. Bernardino e per Ss. Simone e Giuda 40, per S. Domenico 20 e, in fine, per S. Maria in Volturno il numero era di 25.

Nonostante i limiti e le condizioni imposte, il monastero delle agostiniane continuò a svilupparsi e nel XVII secolo potevano contarsi regolarmente una sessantina di ospiti tra suore ed educande.[14]

Quanto alla disciplina, il priore della Trinità lamentò una certa rilassatezza dei costumi delle agostiniane, tanto da manifestare l’intenzione di rinunciare alla loro cura e sorveglianza; fu solo grazie all’intercessione del Comune che i padri agostiniani rinunciarono al loro proposito estremo convincendosi che, tutto sommato, le monache erano «molto osservanti e di vita esemplare ».[15]
In questo stesso periodo invalse l’uso di indicare il cenobio delle mantellate con il nuovo titolo di S. Agostino.[16]

Nel frattempo l’accesso alla vita claustrale nella diocesi viterbese era stato di nuovo regolamentato per volere del vescovo Francesco Maria Brancaccio; questi con decreto del 19 gennaio 1640 aveva disposto che le monache dovevano versare una dote di 300 scudi se viterbesi, di 400 se forestiere e di 600 se in soprannumero; stabiliva, inoltre, che la cera per la vestizione non doveva superare le 30 libbre e che la spesa del pranzo era limitata a 12 scudi; determinava, in fine, il quantitativo del corredo e l’uso della sola la lana per i vestiti delle educande.

Intorno al terzo decennio del ‘600 ebbero inizio i lavori di ristrutturazione dell’intero complesso e il 1° settembre 1679 la nuova chiesa di S. Agostino venne consacrata dal Cardinale Stefano Brancaccio, vescovo di Viterbo, il cui stemma campeggiava sulla facciata a edicola dell’edificio.

E’ questo il momento di massima espansione del monastero che, con gli orti e gli ambienti di servizio, si estendeva su un’ampia area il cui perimetro corrispondeva, indicativamente, alle odierne via S. Maria in Volturno (sud ed ovest), via Magliatori (est) e piazza S. Agostino (nord), sulla quale ultima si affacciava il fronte della chiesa.

Dalle descrizioni pervenute[17] emerge che i nuovi ambienti seicenteschi gravitavano attorno ad un grande chiostro dotato, su tre lati, di un porticato intervallato da massicce colonne ioniche; al centro era una fontana a coppa su vasca a croce greca sulla quale era incisa la data 1637. In un braccio d’accesso al cortile, incassata in una nicchia, era una fontanella con l’abbreviazione “IO. FRAN. SAX. FI. CHIR. PRE.STAX. SIBI AC SVIS POSTERISQUE”. Sul lato nord del chiostro si apriva un grande portale in peperino, riccamente decorato e con eleganti capitelli, che sull’architrave aveva incisa la frase “Pius PP.S.”, riferita appunto a papa Pio II Piccolomini († 1464). Da questo varco si accedeva alla parte più antica del monastero dov’era un chiostrino risalente al ‘500 che si caratterizzava per l’ampio portico su un solo lato e per un pregevole pozzo ottagono recante la data 1536.




L’interno della chiesa era ispirato all’imperante gusto barocco, come testimoniano due imponenti altari lignei dei quali sono sopravvissute rarissime immagini d’inizio ‘900.[18] Tra le decorazioni più importanti, vi era un olio su tela di Antiveduto Gramatica (1571-1626) raffigurante la Presentazione al Tempio e destinato all’altare maggiore,[19] una Madonna in Gloria tra S. Tommaso e S. Guglielmo[20] di Antonangelo Bonifazi (1627-1699) e un Sant’Agostino e San Niccolò attribuito a Salvator Rosa[21].

 


L’INCAMERAMENTO DA PARTE DEL REGNO E LA DEMOLIZIONE

Il XVIII secolo segnò l’inizio di un lento declino per la comunità agostiniana, sia per un aggravamento delle condizioni economiche che per il calo delle monacazioni. Il richiamo per la tradizionale vita claustrale era gradualmente entrato in crisi a causa dell’affermazione di un nuovo modello di religiosità femminile dedito ad attività assistenziali ed educative, come ad esempio le Maestre Pie Venerine e Filippini[22], fondazioni che non prevedevano più l’obbligo della clausura e la dote monacale.


Così come gli altri complessi conventuali cittadini, anche il monastero di S. Agostino subì gli effetti delle confische che colpirono il clero durante la Repubblica Romana del 1798 e la successiva occupazione napoleonica (1810-1815).

Ma il colpo definitivo alla sopravvivenza delle mantellate fu portato dalle leggi con cui il Parlamento italiano nel 1873 decretò la soppressione degli ordini religiosi e il conseguente incameramento dei beni ecclesiastici da parte del Regno sabaudo; sul finire dell’anno gli agenti demaniali presero possesso di tutti i monasteri e conventi viterbesi,[23] compreso quello di S. Agostino.[24]
Inizialmente si pensò di convertire l’area in caserma, ma nel 1911 il monastero divenne proprietà del Comune, che qualche tempo dopo lo utilizzò come edificio residenziale per ospitare alcune famiglie viterbesi.
Nel 1923 passò alla “Società Anonima Costruzioni Edilizie” che, tra l’altro, ristrutturò la chiesa per farne un garage per le auto della Polizia Stradale.


Gravemente danneggiato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, il monastero fu quindi venduto all’Istituto Case Popolari che nel 1951 lo rase al suolo per consentire la realizzazione di nuove case per l’edilizia popolare.

La fontana ottagonale del cortile cinquecentesco venne allora spostata nel chiostro di S. Maria della Verità, mentre il bel portale rinascimentale dedicato a Pio II fu utilizzato come cornice per la porta posteriore della chiesa di S. Giovanni degli Almadiani.[25] La facciata della chiesa fu smontata e i suoi componenti vennero numerati con l’intento di ricomporli in altro luogo, ma quel progetto non vide mai la luce.


DAL FANUM VOLTUMNAE AL MONASTERO DI MAGUGNANO

Fino ai primi decenni del Novecento fu costante il convincimento che la titolazione a S. Maria in Volturno derivasse dal fatto che l’edificio monastico fosse stato costruito su una collina che, in età etrusca, ospitava il Fanum Voltumnae,[26] il leggendario luogo di culto della divinità Velthune[27] narrato da Livio, Diodoro, Varrone e dal poeta Properzio.

Questa credenza traeva le sue fondamenta dalle fantasiose produzioni letterarie del domenicano Giovanni Nanni[28] che, nel XV secolo, aveva attribuito l’origine di Viterbo all’unione dei quattro castelli di Volturna, Arbanum, Vetulonia e Longula.[29]
Il dotto frate aveva collocato l’abitato di «Volturna», identificato con l’etrusco Fanum Voltumnae, sull’estremo lembo occidentale del piano di S. Faustino, presso la porta detta Porticella o anche Quadriera: “Additur et Volturnae pomerium, quod vulgus porticellam, contractus vera a Visconte Gatti conventui nostro datus portam quadriaeram vocat, quia FAVL quattuor litteris aereis erat, more Thusco.” Quell’invenzione trovò piena consacrazione nella pianta della città affrescata alla fine del ‘500 nella Sala Regia del Comune.
Queste seducenti, quanto infondate, teorie furono riprese e rielaborate da autori successivi; intorno alla metà dell’Ottocento, attraverso una serie di erudite interpretazioni, anche Francesco Orioli[30] non esitò a collocare il tempio etrusco sulla collinetta dov’era il monastero agostiniano, tanto da sviluppare l’ipotesi che il termine FAVL, con cui si indicava la sottostante vallata, altro non era che l’acronimo del Fanum Voltumnae.[31] Anche Signorelli, che pure fu più il rigoroso tra gli storici del suo tempo, non sfuggì alla tentazione di affermare che: “surse di poi in quella località un ampio monastero con annessa chiesa, che assunse il titolo di S. Maria in Volturno, accoppiandosi al nome della SS. Vergine quello del dio etrusco, il cui tempio si credeva che fosse colà situato”.
In realtà, S. Maria in Volturno altro non era che il nome tramandato dall’antico monastero che era stato evacuato dalle cistercensi all’inizio del ‘400.
Questo cenobio sorgeva in corrispondenza dell’odierno vocabolo rurale di “S. Maria” situato a sinistra della Strada Provinciale Grottana, a circa due kilometri ad ovest di Mugugnano, agglomerato prossimo alla frazione di Grotte S. Stefano.[32]
Grazie ad alcuni recenti studi è stato possibile rintracciare residue tracce architettoniche dell’insediamento monastico tra i materiali di riuso impiegati per la costruzione di un gruppo di casali localizzati su un poggio a ridosso della valle del fosso dell’Infernaccio. Presso uno di questi edifici è visibile un pilastrino che, incorporato in uno stipite, reca un fregio a rilievo con una doppia spirale intrecciata, secondo un disegno tipico del periodo altomedievale. La porta di un altro fabbricato, invece, reimpiega come architrave un blocco di peperino lavorato in rilievo con tralci.[33] 
Da un punto di vista documentale, la prima menzione del monastero risale ad un contratto del 1153 nel quale è venduto un terreno in loco che dicitur Magognano proprietà di Sancte Marie de Buturno.[34] Lo troviamo ancora nominato in due atti, rispettivamente del 1183[35] e del 1189[36], che rendicontano la locazione di certi poderi nel Piano di Magugnano[37] alla vicina chiesa ferentana di S. Bonifacio; dal primo documento sappiamo che le monache, appartenenti all’ordine benedettino, erano soggette alla cura di un rettore di nome Berlingerio, dal secondo, invece, risulta che le religiose erano in numero di otto e che avevano un nuovo rettore, tale Guidone.


Nella biografia di Innocenzo III († 1216)[38] è detto che il pontefice donò dieci libre senesi alle monialibus de Butrino, nome che con tutta evidenza è la deformazione di Buturno, probabilmente male trascritto da qualche cancelliere pontificio.

In seguito la comunità entrò nell’orbita degli Eremiti Pulsanesi[39], una congregazione di osservanza benedettina il cui caposaldo nella Tuscia era il convento femminile di S. Cipriano, presso Vetriolo (Bagnoregio). L’abate dei pulsanesi ebbe, infatti, a concedere i benefici del monastero di S. Maria in Buturno ad un canonico viterbese per un censo annuo di tre tornesi. La concessione fu sanzionata come indebita da papa Giovanni XXII con lettera dell’11 settembre 1320: “amoto exinde quodam cler. saecul. can. Viterbien cui ab eisdem abbate et conventu [di S. Maria di Pulsano nella diocesi Sipontina] sub annuo censu trium solidorum turonen dicta eccl. fuit concessa.”[40] ,
Con quella stessa missiva fu decretata l’assegnazione del monastero, già ricadente nella diocesi di Bagnoregio,alla mensa vescovile di Viterbo e si dispose l’allontanamento delle benedettine poiché non conducevano una vita decorosa: “ecclesiam S. M. de Buturno Balneoregensis diocesis sitam infra territorium comunis Viterbii quae per Priorissam et Moniales ord. S. Benedicti gubernari hactenus consuevit, quae quidem priorissa et moniales eadem ecclesiastica auctoritate culpis suis sententialiter private et ab ea amote fore dicuntur, mense, prediate concedere, unire et incorporare de speciali grafia dignaremur.”
Pochi anni dopo giunsero a S. Maria in Buturno un gruppo di cistercensi, le stesse che, per la loro incolumità, preferirono poi fuggire nella più sicura Viterbo.[41]
Il monastero nei pressi di Magugnano, abbandonato all’incuria, cadde presto in rovina; sicché, già nel 1407, la badessa del convento di S. Cipriano, potendo vantare qualche diritto residuo sul complesso, vendette all’Opera del Duomo di Orvieto una carrata di marmo tolto dalla chiesa de Butorno.[42]
Il complesso edilizio finì dunque con l’essere smantellato, tanto da perdersene memoria. Ciò nonostante, il patrimonio fondiario del vecchio monastero, essenzialmente concentrato nel Piano di Mugugnano, venne in parte ereditato dalle terziarie agostiniane che a Viterbo erano subentrate alle profughe cistercensi; probabilmente i loro diritti furono oggetto di contestazioni e di prevaricazioni, così che nel 1514 fu necessario che papa Leone X intervenisse per confermare alle mantellate il possesso della selva di Boturno.

Quanto al nome Buturno/Butorno, la sua etimologia è sconosciuta.
Volendo, ad ogni costo, azzardare un’ipotesi, si può pensare ad una derivazione da «Velturno», vocabolo composto dal radicale indoeuropeo vel che, secondo alcuni studiosi, starebbe ad indicare «lo scorrere del fiume»[43], e dal suffisso etrusco thur. Si tratterebbe, insomma, di un toponimo col significato di «luogo/terra del corso d’acqua»; ed in effetti l’area in questione è attraversata dalle anse serpeggianti del torrente Infernaccio.


In seguito alla romanizzazione dell’area, vel si sarebbe latinizzato in vol e, nei secoli successivi, la “v” sarebbe stata assimilata in “b”: Velturno/Volturno/Botorno, secondo lo stesso processo corruttivo di Velzna/Volsini/Bolsena.

Va, comunque, detto che in molti toponimi etruschi l’elemento vel ricorre anche con il valore di “altura”[44]. Non può, in fine, escludersi una derivazione da vultur, nome con cui si indicava l’uccello augurale dei romani e degli etruschi; questi rapaci ben potevano aver trovato l’habitat ideale per la loro nidificazione nelle scarpate dell’Infernaccio e nella fitta boscaglia che circondava il suo percorso. 
Quelle accennate sono tutte supposizioni interessanti, ma da «prendere con le molle» e con il dovuto disincanto. Il desiderio di fornire una spiegazione che tragga le radici in un passato così remoto e suggestivo, rischia infatti di generare le stesse elucubrazioni etimologiche e filologistiche che Giovanni Nanni aveva forzatamente costruito nel ‘400 per convincere i suoi concittadini che Viterbo fosse stata la sede del mitico Fanum Voltumnae.

 
 
di Ser Marcus de Montfort

 

Questo documento può essere riprodotto e diffuso citando la fonte e l’autore
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Bibliografia

G. Signorelli, Viterbo nella Storia della Chiesa
A. Lirosi “I monasteri femminili a Roma nell’età della Controriforma: insediamenti urbani e reti di potere (secc. XVI-XVII)”
A. Muñoz, Monumenti d’arte della provincia romana. Studi e restauri
G. Romagnoli, Ferento e la Teverina viterbese. Insediamenti e dinamiche di popolamento tra X e XVI secolo
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[1] Prot. Marozio Nini p. 137 – Marg. Hosp. S. Sixti p. 5.

[2] Prot. 39 Lor. Tignosini p. 85

[3] La presenza delle monache è documentata sin dal 1419, ma l’ubicazione della loro casa è incerta. Si sa che per le funzioni religiose si avvalevano della chiesa della Trinità, dove tra l’altro avevano sepoltura nella cappella di S. Monica. G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, Libro V, p. 257.

[4] Il convento della Trinità venne fondato dai frati Agostiniani nella metà del XIII secolo; la loro presenza in città è documentata per la prima volta nell’anno 1256: locus fratrum heremitanorum ord. S. Agustini in Viterbio (Arc. Com. perg. 3517).
L’ordine Agostiniano trae origine dalle diverse congregazioni eremitiche sorte in Italia nei secoli XII e XIII. Con la bolla Incumbit nobis del 1243 papa Innocenzo IV riunì le comunità eremitiche della Toscana in un unico ordine soggetto alla regola dettata da S. Agostino. Con la bolla Licet Ecclesiae catholicae del 1256 gli agostiniani entrano a far parte degli ordini “mendicanti” e con lo stesso provvedimento Alessandro IV decretò l’unione con altri gruppi di anacoreti sparsi in giro per l’Italia centrale, come i Guglielmiti, gli Eremiti di Brettino e quelli di Monte Favale. Dall’unione generale del 1256 incomincia per gli eremitani di S. Agostino un eccezionale sviluppo e diffusione. Lasciati i romitori, sorsero in breve un grande numero di conventi e monasteri in tutta Europa. Alla fine del XIII secolo si contano diciassette provincie con circa 12.000 religiosi. Nella prima metà del Trecento i circa 15.000 agostiniani erano distribuiti in oltre 300 conventi suddivisi in 25 province. Alla metà del XV secolo il numero delle provincie era salito a 40 ed i religiosi a circa 30.000. Ai primi del XVI secolo si hanno 46 provincie, numero che sale ancora a 58 ai primi del secolo successivo.

[5] Nel 1492 un documento attesta che le agostiniane erano stabilmente insediate nel monastero di S. Maria in Vuturno. Prot. Batt. D’Antonio p. 503, 540.

[6] La festa della Purificazione è celebrata il 2 febbraio e ricorda la cerimonia con cui Maria, secondo l’usanza ebraica, venne purificata nel giorno della presentazione al Tempio del figlio Gesù.

[7] Solo una parte dei denari promessi (200 scudi) fu realmente versata a causa delle gravi liti insorte con gli altri eredi dell’ingente patrimonio del cardinale Antonini.

[8] La casa era alle spalle dell’odierna S. Maria della Peste.

[9] Era nell’area dell’attuale via T. Carletti.

[10] Nei documenti è detto che dal 1530 possedevano una casa presso la Porticella. Prot. 3 A. M. De Antiquis p. 71. Forse era lo stesso appartamento occupato dalle bizzoche agostiniane che inglobarono le ultime monache cistercensi di S. Maria in Volturno.

[11] Prot. 3 De Antiquis p. 243.

[12] Con il Decretum de regularibus et monialibus il Concilio aveva esteso l’obbligo della clausura a tutte le monache, specificando che “ut in omnibus monasteriis sibi subiectis ordinaria, in aliis vero sedis apostolicae auctoritate clausuram santimonialium, ubi violata fuerit, diligenter restitui, et, ubi inviolata est, conservari maxime procurent”. Tuttavia, il termine “sanctimoniales” usato nel decreto si prestò a diverse interpretazioni, tanto che per alcuni non ricomprendeva i membri dei terz’ordini. Solo con la bolla di Pio V si arrivò alla definitiva assimilazione delle terziarie che proferivano i “voti solenni” (sorores ordinis Poenitentiae) alle monache soggette alla clausura; le terziarie che avevano professato i soli “voti semplici” restarono libere di non aderire alla clausura, ma non poterono più accogliere novizie, sicché le loro comunità erano destinate ad estinguersi. A. Lirosi “I monasteri femminili a Roma nell’età della Controriforma: insediamenti urbani e reti di potere (secc. XVI-XVII)” p. 149 e segg.

[13] Concilium Tridentinum, sessio XXV, caput III

[14] In una nota per la distribuzione del sale del 1658 risulta che le monache di S. M. in Volturno erano 60, così come quelle di S. Maria della Pace e S. Simone; in S. Domenico, invece, erano 120, in S. Bernardino 95, nel Monastero della Visitazione 90 e in S. Caterina 70.

[15] Letterario VII, p. 10

[16] Comunque nei documenti ufficiali continuava ad essere usata la denominazione originaria: “Die 20 martii 1523. Congregato e coadunato honorabili Capitulo honestarum Monialium Monasterii Sancte Marie Volturne Ordinis S. Augustini Eremitarum de Observantia”; “Die 29. julii 1542. Congregato e coadunato honorabili Capitulo Monialium Monasterii Sancte Marie Volturne de Viterbio Ordinis S. Augustini in Ecclesia ditti Monastlerii”.

[17] A. Muñoz, Monumenti d’arte della provincia romana. Studi e restauri, in ”Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione, VII, 1913, pp. 291-305.

[18] A. Scriattoli, Viterbo nei suoi monumenti, p. 318-319.

[19] Oggi al Museo Civico.

[20] Oggi nel Palazzo Vescovile.

[21] L’attribuzione fu di Feliciano Bussi, ma Giuseppe Signorelli la smentisce.

[22] Congregazione fondata nel 1685 dalla viterbese Rosa Venerini con lo scopo di educare alla Dottrina Cristiana le ragazze povere. Nella prima metà del ‘700 le Maestre Pie Venerine avevano istituito scuole in molti centri della Tuscia e persino a Roma. Le Maestre Pie Filippini furono istituite nel 1707 da Lucia Filippini quale ramo indipendente delle Venerini.

[23] Secondo una statistica del 1871 a Viterbo si contavano 474 religiosi residenti nei conventi, di cui 176 frati e 298 monache.

[24] Il 28 ottobre fu preso possesso di S. Maria in Gradi; quindi il 14 novembre toccò ai conventi della Trinità e della Verità e al Monastero di S. Rosa; nei primi giorni di dicembre dei conventi di S. Francesco e della Crocetta e del monastero della Duchessa.
Tra il 17 ed il 18 dicembre toccò a S. Domenico, a Ss. Teresa e Giuseppe, a S. Caterina, a S. Agostino, a S. Bernardino, alle Monachelle di S. Maria dell’Assunta, a S. Maria della Pace, ai SS. Simone e Giuda. B. Barbini, I conventi viterbesi nell’occhio del ciclone, in Biblioteca e Società.

[25] Si tratta della porta che oggi funge da accesso principale della chiesa, affacciata su Piazza dei Caduti.

[26] Ogni anno vi si riunivano i rappresentanti della Lega Etrusca per eleggere un capo/sacerdote; in quell’occasione si tenevano grandi cerimonie e festeggiamenti. La ricerca del Fanum è stata oggetto di innumerevoli studi e teorie che, tuttavia, non sono mai giunte a risultati certi o univoci; di volta in volta si è voluto ubicare il tempio nei pressi di Tarquinia, Tuscania, Bolsena, Orvieto, Montefiascone, Valentano, sulla Palanzana e, naturalmente, a Viterbo. Naturalmente, Fanum Voltumnae era il nome latino attribuito dai romani; per alcuni studiosi l’originario termine etrusco che indicava il luogo sacro era Metlumth.

[27] Voltumna, Velthune, Vertumnus era il dio della nazione etrusca, protettore della Lega dei Dodici Popoli.

[28] Giovanni Nanni (1437-1502), detto Annio da Viterbo, frate domenicano, famoso teologo, astrologo ed erudito umanista. La sua opera più importante fu l’Antiquitatum variarum, 17 volumi che raccolgono falsi scritti di pensatori dell’antichità, da Megastene a Catone. Fu anche un’abile falsificatore di epigrafi, come il celebre “Decreto di Desiderio”, con il quale tentò di dimostrare la fondazione di Viterbo per volontà del re longobardo, e la “Tabula Cibellaria”, un rota circolare marmorea che contiene un testo in greco.

[29] “Dicebatur igitur FAVL quattuor eius tetrapolis circum FAVL populos tinc heroes Etruriae denotat, videlicet Volturrenos, Arbanos, Vetulonienses ac Longholanos. Quare Viterbium significat quasi vita Heroum quattuaor populrum eius”. Antiquitatum variarum, Questio XVI.

[30] F. Orioli, Viterbo e il suo territorio, p. 89 e segg.

[31] Per George Dennis, le lettere FAVL erano spiegate come l’acronimo di “Fanum Auguste Volturne Locumonum”. The cities and cemeteries of Etruria, 1848.

[32] Alcuni autori (ad esempio Wetter) proposero, errando, l’identificazione di S. Maria in Volturno con i resti di un complesso conventuale del ‘500 ancora oggi visibili presso Macchia Grande, a sudest di Ferento.

[33] G. Romagnoli, Ferento e la Teverina viterbese. Insediamenti e dinamiche di popolamento tra X e XVI secolo, pp. 177 e segg.

[34] Arch. Catt. perg. 956.

[35] Arch. Catt. perg. 986.

[36] Arch. Catt. perg. 992.

[37] Ancora oggi, a sud della stazione di Grotte S. Stefano, esiste una località detta “Piano delle Monache”.

[38] Gesta Innocentii III papae.

[39] Il monastero di S. Maria di Pulsano, nel Gargano, fu fondato nel 1129 da Giovanni da Matera. Pur rimanendo nella regola benedettina, i monaci pulsanesi accentuarono il sistema di vita eremitico, la povertà e il lavoro manuale. Presto sorsero dipendenze in molte regioni della penisola (soprattutto in Puglia) e la congregazione si aprì anche alle donne. Fuori dall’Italia meridionale furono importanti centri di diffusione della regola pulsanese i monasteri di S. Salvatore sul Trebbia (Piacenza), S. Michele a Guamo (Lucca), S. Michele degli Scalzi (Pisa), S. Pancrazio a Roma e S. Maria Intemerata di Fabroro (Firenze).

Dalla metà del Duecento la congregazione andò sempre più deperendo, fino alla sua totale estinzione sul fine del XIV secolo.

[40] Regesto Vaticano 72, ep. 1635.

[41] Nel 1439 si citano le monache de Votorno ord. Cisterciensis.

[42] G. Baciarello, La comunità cellenese nel tardo medioevo, p. 157.

[43] Il prefisso “vel”, associato ad altri termini successivi etrusco-italici, ricorre in molti toponimi (ad esempio, Velitrae/Velletri, Velabro), oronimi (ad esempio, Velino) ed idronimi (ad esempio, Volturno) italiani. G. Reccia, Confronti etimologici e riscontri geocartografici, p. 23 e seg.

[44] Ad esempio, Velathri/Volterra.



 
 
 
 
 
 
 
 

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