LE INSEGNE TEMPLARI DELLA DOMUS DI S. MARIA DELLA CARBONARA




TEMPLARI AD OGNI COSTO

Negli ultimi anni molto si è scritto sulla presenza templare a Viterbo, in qualche caso cedendo alla facile tentazione di considerare alcuni simboli inseriti nell’arredo architettonico dei quartieri medievali quale eccezionale – e magari misterica – testimonianza dei cavalieri rossocrociati.

Ecco allora che la TAU scudata raffigurata in via S. Antonio viene sistematicamente propagandata dal web e da alcune pubblicazioni come antico contrassegno templare, sottacendo invece che si tratta dell’insegna degli Antoniani di Vienne, una famiglia di canonici regolari che in questa contrada possedeva un ospedale[1]; allo stesso modo, la fontanella di piazza S. Lorenzo[2] si vuole essere templare per via delle croci patenti scolpite sulla vasca e sui supporti, rappresentazioni che invece rinviano al blasone dei Santacroce, nobile famiglia romana che diede i natali al vescovo viterbese Matteo (1701-1712); senza contare le croci a due braccia incastonate sui muri di alcune strade (via delle Monache e via S. Pellegrino, ad esempio) usate per indicare le proprietà immobiliari dell’Ordine ospedaliero di S. Spirito in Saxia, ma che continuano ad essere spacciate per arcane segnature dell’Ordine templare. E che dire, in fine, della croce della torre di Sassovivo, che pur presentando dei bracci con una lieve biforcatura non è certo una croce pattée della Militia Templi, ma una croce del Calvario (il patibolum è piantato su un rialzo) che simboleggia il monastero benedettino della S. Croce di Sassovivo presso Foligno.

 

NASCOSTI ALL’OCCHIO DEL TURISTA
Invero Viterbo è custode di un’interessante serie di stemmi realmente appartenenti ad un passato templare la cui conoscenza, tuttavia, rimane limitata ad una ristretta cerchia di studiosi e cultori di storia locale. Si tratta di quattro piccole sculture in rilievo ricavate negli architravi delle bifore che scandiscono la facciata della domus templare attigua alla chiesa di S. Maria delle Carbonara.

Il campo visivo sull’edificio è parzialmente ostacolato dal vano d’ingresso fatto costruire nel ‘500 e dal muretto di cinta su via S. Antonio, sicché l’individuazione delle due finestrelle è un po’ scomoda; inoltre, la distanza ed il deterioramento dei bassorilievi rischia di non farne apprezzare pienamente i dettagli.

La bifora di sinistra è sormontata da due blocchi di peperino sulla cui superficie sono stati definiti due archi attraverso una semplice ghiera a listello. Nel primo archetto è rappresentato un blasone illeggibile perché troppo rovinato; forse si trattava di uno stemma che distingueva la casa templare viterbese o magari uno dei suoi «precettori».

Infatti, era piuttosto comune che i presidi locali dell’Ordine scegliessero liberamente i propri emblemi e sigilli, anche distinguendosi dalla simbologia ufficiale delle autorità centrali; questa prassi è ben documentata dai registri di papa Innocenzo IV (anno 1252) nei quali si legge che: “Magistro et fratribus militie Templi Yerosolimitani. Ex parte vostra fuit propositum coram nobis quod, licet ad antiquo in Ordine vostro certa sigilla secundum diversitatem provinciarum distincta fuerint, ita quod nequaquam mutantur, etiam si preceptores in eisdem provintiis mutari contingat quindam tamen sigilla ipsa, pro eo quod nomina preceptorum eorundem provinciarum non continentur in illis, in dubium revocare conantur.”[3] 

 

LA ROSA PENTALOBATA

Nel secondo archetto della bifora, invece, è scolpita una rosa a cinque petali[4], un fregio piuttosto ricorrente nell’architettura viterbese; ad esempio, è presente sul fronte del palazzetto di S. Fortunato e nelle finestrelle che si aprono sulla torre di Messer Braimante e sulla torre degli Alessandri.

Va comunque ammesso che la rosa ha sempre fatto parte del repertorio simbolico dell’Ordine templare.

In particolare, la rosa pentalobata si ricollegava alle figure del pentagono e della stella a cinque punte (pentalfa), entrambe archetipi dell’umanità e del microcosmo pitagorico e, in senso cristiano, dell’essere umano integrato nella creazione divina.[5] Un esempio eloquente dell’uso di queste rappresentazioni metaforiche è il pentacolo iscritto in una rosa pentalobata presente nella chiesa templare di S. Maria do Olival, nella città portoghese di Tomar.

Che l’uomo dovesse concorrere al completamento del progetto di Dio era un concetto nodale della religiosità templare, certamente ispirato alla teologia cistercense; questa impostazione era alla base dell’idea di un ordine religioso costituito da monaci autorizzati a portare le armi e votati alla guerra come milites Christi. Bernardo di Chiaravalle, che ispirò la regola templare e scrisse un vero e proprio proclama di esaltazione dell’Ordine, affermava: “I cavalieri di Cristo combattono …. senza timore né di peccare quando uccidono il nemico, né di rischiare l’anima se cadono. La morte data e ricevuta per Cristo, difatti, nell’un caso non comporta peccato alcuno, nell’altro merita grande gloria … Non è infatti senza motivo che porta la spada; egli è agli ordini di Dio per punire i malvagi e rendere onore ai buoni ..Dalla morte del pagano, il cristiano trae gloria perché Cristo viene glorificato; ma quando il cristiano muore, allora si fa palese la generosità del Re, che chiama a sé dai ranghi il cavaliere per donargli la ricompensa.”[6]   

Sin dall’antichità, la rosa era comunque stata simbolo di completezza e perfezione. Nella tradizione arabo-orientale, inoltre, questo fiore era allegoria del sentiero mistico; in particolare, nel sufismo islamico[7] questo cammino iniziatico era detto Sebil el Uard, cioè «la via della rosa». Ed è convincimento di molti storici che i templari, mentre combattevano in Terrasanta, non disdegnarono di coltivare rapporti con comunità che praticavano queste discipline spirituali.

Ma senza dover necessariamente scivolare verso tematiche esoteriche, e rischiare insidiose cadute, basterà ricordare che la rosa è semplicemente un simbolo cultuale diffusissimo in tutto il Medioevo cristiano, stilizzazione iconografica di Maria Vergine e Madre di Cristo. Questa connessione ha origini remotissime, così come testimonia una mattonella di terracotta del V-VI secolo, rinvenuta a Cartagine, dove si trovano incise un’invocazione rivolta alla Madonna (Sancta Maria adjuva nos) e una rosa con i cinque petali disposti a stella.[8]

Nella simbolica medievale, Maria venne identificata con la “rosa di macchia” o “rosa canina” in quantone sottolineava la natura virginalela compiutezza assoluta.[9] 

La devozione mariana dei templari è indiscutibile; è alla Vergine che essi consacrarono la nascita della loro fratellanza: «Maria presiedette al principio del nostro Ordine, ne presieda anche, se questa sarà la volontà del Signore, la fine.» Straordinaria sintesi di cielo e terra, Maria è la “rosa mistica” del loro patrono Bernardo di Chiaravalle; quando nel 1310 i templari detenuti nell’abbazia di Sainte Geneviève vennero processati dai procuratori pontifici, uno di loro, fratello Aymery, difese l’ortodossia dell’Ordine attraverso un’accorata preghiera nella quale affermava la dedizione a Maria: «Signore, il Tuo Ordine, quello del Tempio, è stato fondato per l’onore della Santa e Gloriosa Vergine Maria, Tua Madre, dal Beato BernardoTuo Santo Confessore, scelto per questo servigio dalla Santa Romana Chiesa … Santa Maria, Madre di Dio difendete il vostro Ordine …».

 

LA CROCE PATRIARCALE

Subito appresso alla bifora appena descritta vi è un balcone con una porta dalla cornice in peperino; sopra l’architrave si vede uno scudo con la croce patente circoscritta dal celebre motto templare: Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam, ossia «Non per noi Signore, non per noi, ma per il Tuo nome dai la gloria”. Lo stemma è d’origine incerta e sicuramente la sua collocazione è recente.  

Oltre il balcone si apre la seconda bifora, la meglio conservata e quella che dal punto di vista simbolico è la più interessante. I conci di peperino che fungono da architravi delle finestrelle sono finemente decorati con una ghiera dentellata che disegna due archetti. In quello di destra è rappresentato un personaggio a cavallo; lo sgretolamento di parte del bassorilievo non consente di accertare se si tratti della sagoma di un templare o, magari, di uno dei santi protettori dei monaci-cavalieri, San Giorgio o l’Arcangelo Michele.

Nell’arco di sinistra, invece, è rappresentata una croce a doppia traversa, la cosiddetta Croce Patriarcaleche rappresenta un’autentica rarità nell’iconografia templare.[10]

Si tratta di una croce caratterizzata da due traverse orizzontali di diversa misura. Si ritiene che questa tipologia di croce fosse il primo simbolo adottato dai templari. Probabilmente venne loro assegnato dal Patriarca Latino di Gerusalemme, Gormand de Piquigny, in occasione del formale riconoscimento dell’Ordine nell’anno 1120.[11]

Non può, tuttavia, escludersi che l’emblema fosse stato semplicemente mutuato dai Canonici del Santo Sepolcro che furono tra i primi a fregiarsi della Croce Patriarcale all’indomani della prima crociata. Una parte della storiografia[12], infatti, asserisce che nel 1118, appena giunti in Terrasanta, Ugo de Payens e i suoi primi compagni si raccolsero presso la Basilica del Santo Sepolcro, come una sorta di conversi, ospiti dell’omonimo Ordine canonicale fondato da Guglielmo di Buglione.[13] Solo più tardi, ormai cresciuti di numero, i seguaci di Ugo de Payens acquisirono una loro autonomia ed ottennero da re Baldovino I il diritto di trasferirsi in un’ala dell’ex moschea di al-Aqsa, sulla spianata del Tempio di Salomone, e da quel momento si prese a chiamarli milites Templi.

Va comunque detto che, almeno in un primo momento, la croce a doppia traversa era stata impiegata anche dagli Ospedalieri di S. Giovanni, come chiaramente documentano alcuni sigilli della metà del XII secolo. D’altronde, era naturale che le giovani fraternitas nate sulla scia della crociata volessero tutte proclamare la loro origine gerosolimitana attraverso l’adozione di quello che per i cristiani d’Occidente era l’emblema per eccellenza della Città Santa e del suo Patriarcato.

Quali che fossero state le circostanze in cui i templari furono avviati all’uso della croce a doppia traversa, fatto sta che nel volgere di neppure un ventennio di vita, parallelamente alla crescita dell’Ordine, il primitivo simbolo venne sostituito con una croce rossa a quattro bracci uguali, la quale nel tempo assunse la classica forma a terminazione svasata che darà origine alla cosiddetta «Croce Patente» Croix Pattéè.  


Già nella bolla 
Omne Datum Optimum del 1139, con cui Innocenzo II sancì l’autonomia dell’Ordine dalle autorità ecclesiastiche, si fa riferimento al nuovo emblema: “dopo aver assunto la croce del signore e l’abito della vostra professione…” e ancora “… portate sul vostro petto il segno vivificante della croce”.

Anche se non ne viene mai specificata la forma, gli storici concordano che doveva trattarsi di una croce a quattro bracci simile a quella tradizionalmente portata dai guerrieri che partecipavano alle crociate.

Nel capitolo generale dell’Ordine celebrato a Parigi nel 1147, papa Eugenio III ribadì che i templari dovevano portare una croce color vermiglio sulla spalla sinistra del mantello bianco; così ricorda quella concessione il teologo del XIII secolo Jacque de Vitry: “Più tardi, ai tempi di papa Eugenio, essi indossarono la croce rossa sui loro abiti, portando il bianco come emblema dell’innocenza e il rosso per il martirio.”   

Quindi la Croce Patriarcale scomparve dalla simbologia ufficiale dell’Ordine del Tempio, anche se alcuni ricercatori sostengono che, per un periodo imprecisato, venne mantenuta dal Gran Maestro e dai vertici dell’organizzazione. In proposito, così scriveva, intorno alla metà del secolo scorso, lo scrittore John Charpentier: “la croce rossa [patente] è stata comune a tutti i membri, ad eccezione, tuttavia, dei grandi dignitari che adottarono la croce a doppia traversa ineguale, la più corta in alto.”[14]     

 

LA VERA CROCE

Secondo la tradizione, la croce di Cristo fu ritrovata a Gerusalemme da Elena, madre dell’imperatore Costantino, nell’anno 325 d.C.; Elena fece dividere la croce in tre porzioni, una fu lasciata a Gerusalemme, una venne inviata al figlio presso Costantinopoli[15] e l’ultima la portò con sé a Roma dove, col passare del tempo, entrò a far parte del sancta sanctorum pontificio[16].

Furono rinvenuti anche i chiodi utilizzati dai carnefici[17] e il titulus damnationis, ossia la tavoletta che riportava la colpa del condannato; quest’ultima fu divisa in due, la metà sinistra rimase a Gerusalemme,[18] la metà destra venne trasferita a Roma.[19]


E’ in questo periodo che si andò delineando l’iconografica classica della
 Croce a due travi, costituita da un palo, lo stipes, su cui sono montate due traverse orizzontali, quella più lunga detta patibulum e, al di sopra di questa, quella più piccola che reca il titulus crucis.

Nei secoli che seguirono, la parte di croce rimasta in Terrasanta fu presa in custodia dal Patriarca gerosolimitano, il quale la elesse a propria insegna. Quella preziosa reliquia subì molte asportazioni e le particole ottenute iniziarono a viaggiare in tutta Europa. Nel 614 la croce venne sottratta, assieme ad altri tesori sacri, dai persiani che la portarono nella loro capitale Ctesifonte, vicino l’odierna Baghdad; restituita all’imperatore bizantino Eraclio, nel 630 la croce fu solennemente riportata a Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro.

Otto anni dopo il patriarca Sofronio fece dividere la croce: diciassette pezzi furono spediti in altrettante diocesi d’Oriente, mentre quattro parti, le più grandi, rimasero nella Città Santa.Quando nel 1099 la Terrasanta venne liberata, il frammento più consistente custodito presso la basilica gerosolimitana iniziò ad essere venerato da crociati e pellegrini europei quale Vera Croce di Cristo. Di questa reliquia esistono poche raffigurazioni e per lo più si tratta di immagini tratte da sigilli e monete, come la moneta regis, coniata ad Acri prima del 1150: in tutti i casi viene rappresentata come una croce con due bracci orizzontali.

Portata al seguito dell’esercito come vessillo, la Vera Croce cadde in mano araba nella battaglia di Hattin del 4 luglio 1187 e da allora se ne perse ogni notizia.[20]  

Gli imperatori bizantini avevano, invece, ereditato il legno della croce conservata a Costantinopoli; da esso ricavarono numerose particole con le quali omaggiarono, in epoche diverse, monasteri e monarchi occidentali. I pezzi più grandi mantenuti nella capitale bizantina furono trafugati durante le razzie che accompagnarono la IV crociata del 1204. Il cronista coevo Robert de Clari raccontava che tra le reliquie predate dai crociati vi erano “due frammenti della vera croce di Cristo, grandi quanto una gamba di un uomo e lunghi all’incirca un braccio

Schegge sacre vennero trasferite in ogni angolo d’Occidente, spesso attraverso scandalosi commerci; la sacrilega distribuzione del bottino venne così descritta nella chronica regia Coloniensis: “Dopo la conquista della città di Costantinopoli fu trovata … una parte della croce di Cristo che Elena spostò da Gerusalemme e che fu decorata con oro e pietre preziose. … I vescovi presenti la spartirono fra i cavalieri assieme alle altre reliquie preziose; in seguito, al loro ritorno in patria, la croce fu donata a chiese e monasteri.”

Nei giorni del sacco era presente a Costantinopoli anche un manipolo di templari guidato dal magistro Jacopo Barochio, un precettore della provincia di Lombardia[21]. A questi si rivolse Baldovino di Courtenay, capo della spedizione crociata, affinché si recasse dal papa e lo implorasse di revocare l’interdetto scagliato sugli armati che avevano assalito l’impero bizantino anziché dirigersi contro il nemico islamico; per quella missione diplomatica, Baldovino donò ai templari alcuni oggetti preziosi e due particole della Vera Croce.[22] 

 

UNA CROCE FUORI TEMPO?

Considerato che la Croce Patriarcale, come si abbondantemente raccontato, era verosimilmente un emblema templare della prima ora, si potrebbe semplicisticamente dedurre che la domus di S. Maria della Carbonara sia stata un insediamento assai antico, magari risalente alla prima metà del XII secolo.[23]  

In realtà, qualificate indagini hanno dimostrano che il palazzetto templare iniziò ad essere costruito soltanto a partire dalla metà del Duecento; il piano sul quale si aprono le bifore apparterrebbe, addirittura, ad una seconda stagione edilizia inquadrabile intorno al terzo quarto del XIII secolo.[24]

Come si spiega, quindi, l’esigenza di rappresentare una croce a doppia traversa in un’epoca così lontana dalle origini dell’Ordine?

Aderendo alle considerazioni di alcuni recenti studi si può immaginare che il bassorilievo viterbese sia una testimonianza della profonda devozione dei templari per le reliquie della Vera Croce, del cui culto furono senz’altro agenti propagatori in tutto l’Occidente.[25]

Ma si può anche avanzare l’ipotesi che con quella croce i precettori della mansione viterbese volessero affermare la loro missione costitutiva, la difesa di Gerusalemme, e mantenere un contatto metaforico con i luoghi delle loro prime imprese. Non va dimenticato, infatti, che tra il 1260 e il 1270 la trionfante avanzata islamica aveva fortemente ridimensionato lo slancio crociato dei sovrani europei e che, dopo la caduta di molte importanti piazzeforti, la speranza di recuperare la Terrasanta si stava allontanando anche dalla prospettiva degli ordini monastico-cavallereschi.

L’intero gruppo di bassorilievi che campeggiava sulla facciata di rappresentanza della domus costituiva una sorta di gonfalone che ribadiva simbolicamente la vocazione militare e le primigenie finalità dell’Ordine, soprattutto in una stagione in cui si accusavano i templari citra mare, ossia di stanza in Europa, di una eccessiva sedentarizzazione e di un accentuato interesse per le attività finanziarie.

 

 

di Ser Marcus de Montfort

disegno di Marco Serafinelli de Castro Celleni

 

Questo documento può essere riprodotto e diffuso citando la fonte e l’autore

 

 

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[1] Già nel 2000 Monsignor Del Ciuco, in un suo articolo sul Messaggero, doveva precisare: “Sullo stipite di una porta dell’antico convento esiste scolpita sul peperino una Tau che molti credono stia per indicare i Templari. Non è esatto. Storicamente quella Tau ricorda invece i monaci di S. Antonio, il quale in tutta l’iconografia è sempre rappresentato con il porcellino e l’immancabile bastone del pellegrino o anacoreta che termina a forma di Tau.”

[2] La fontana è oggi inserita in una piccola nicchia sotto l’ingresso del Museo del Duomo; secondo alcuni storici si tratterebbe di un manufatto del XVIII secolo realizzato in sostituzione di una più antica fonte medievale.

[3] Berger, Les Registres d’Innocent IV, n. 4870.

[4] Per Nadia Bagnarini il simbolo floreale potrebbe rimandare a un possibile patrocinio degli Orsini sulla fabbrica dell’edificio. Una presenza templare a Viterbo, p. 56.

[5] In ambito cabalistico il numero cinque era metafora dell’unione dei quattro elementi tradizionali (fuoco, acqua, aria e terra) attraverso l’azione del principio spirituale (l’Etere). Per i pitagorici rappresentava il cosmo che l’uomo è in grado di esperire, simbolo di perfetta armonia fisica e spirituale.

[6] Bernardo di Chiaravalle, De laude novae militiae.

[7] E’ una dottrina e disciplina di perfezionamento spirituale della cultura islamica, legata all’insegnamento di Maometto ma influenzata anche da altre religioni e fenomeni metareligiosi.

[8] R. Aussibal, Le symbolisme marial des steles discoidales.

[9] Nel mondo pagano la rosa era la massima rappresentazione delle femminilità, della Madre primordiale e veniva associata a Venere in quanto, lungo la fascia dello zodiaco, la traiettoria del pianeta tracciava un disegno che imitava la forma dei cinque petali del fiore. Con l’avvento del Cristianesimo, la rosa venerea pagana assumerà un nuovo significato spirituale diventando simbolo di Maria, grembo divino e Vergine.

[10] Nella precettoria di Garway nello Herefordshire, fondata nel 1180, si può vedere una enigmatica rassegna di croci templari scolpite nelle mura della chiesa, tra le quali una croce patriarcale.

[11] Secondo alcuni studiosi (ad esempio, J.H. Probst Biraben) la croce venne concessa da Theocleto, patriarca della Chiesa Giovannita, una setta Mediorientale alla quale i templari aderirono al momento del loro arrivo in Terrasanta. Per Andrè Favyn, letterato francese del XVIII secolo, la “croce patriarcale rossa” era stata riconosciuta da Stefano, patriarca di Gerusalemme nel 1128.

[12] B. Frale, I Templari e la Sindone di Cristo, p. 32 e seg.

[13] Secondo la tradizione, nel 1099, dopo la liberazione di Gerusalemme, un gruppo di cinquanta cavalieri venne preposto da Goffredo di Buglione alla difesa del Santo Sepolcro e dei Luoghi Santi della città. Su suggerimento del primo Patriarca Latino della città, Arnolfo di Rohes, Goffredo raccolse alcuni chierici in un Ordine canonicale cui affidare la gestione religiosa della chiesa del S. Sepolcro; dall’unione della fratellanza laico-militare con la comunità religiosa nacque l’Ordine del S. Sepolcro che venne formalizzato nel 1122 da papa Callisto II.

[14] J. Charpentier, L’Ordres des Templiers.

[15] Dapprima venne inserita in un reliquiario al centro del Milion, la piazza che fungeva da nucleo di Costantinopoli. In seguito venne conservata nella cappella privata degli imperatori bizantini.

[16] Elena conservò la reliquia in un vano del suo palazzo romano, il Sessorium, che più tardi venne trasformato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Nel 1629 la reliquia fu spostata a S. Pietro, ad eccezione di tre piccoli frammenti che rimasero in S. Croce.

[17] Uno dei chiodi fu portato a Roma ed oggi è custodito a S. Croce in Gerusalemme. Uno fu acquistato nel XIV secolo dall’Ospedale senese di S. Maria della Scala e proveniva dal tesoro imperiale bizantino; oggi circa una trentina di città europee reclamano di possedere uno dei chiodi (o una particola di essi) usati per la crocefissione di Cristo.

[18] Dal VII secolo se ne perde tracia, forse trasportata a Costantinopoli dall’imperatore Eraclio. Alcuni documenti attesterebbero la sua traslazione alla Sainte Chappelle di Parigi, dove comunque venne perduta durante la rivoluzione francese.

[19] E’ conservata a S. Croce di Gerusalemme. Il pezzo reca tracce di un’iscrizione trilingue su tre righe, in ebraico, greco e latino.

[20] Forse su venduta ai bizantini o a Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra. Gli altri tre frammenti di croce rimasti a Gerusalemme pervennero alla Chiesa Armena ed oggi sono custoditi nella Cattedrale gerosolomitana di S. Giacomo.

[21] Forse era veneziano, fu donatario dell’ospedale di S. Eustachio in Verzolo, presso Pavia, nel 1201.

[22] B. Frale, I Templari e la Sindone di Cristo, p. 185.

[23] S. Bassetti, I Templari a Viterbo, p. 115.

[24] G. Romalli, La Domus templare di Santa Maria in Carbonara, pp. 65 e segg.

[25] A. Cadei, Gli Ordini di Terrasanta e il culto per la Vera Croce e il Sepolcro di Cristo in Europa nel XII secolo. pp. 51-66. In questo contributo si sostiene che i templari trasportarono in Europa particole di legno contenute in stauroteche a forma di croce a doppia traversa.






 
 
 

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