LA CHIESA DI S. MARIA DELLA CELLA


I FARFENSI E LA TUSCIA

La tradizione vuole che il più antico nucleo monastico di Farfa sia stato realizzato alle pendici del monte Acuziano, nel cuore della Sabina, in un periodo compreso tra il IV e gli inizi del VI secolo per volontà di san Lorenzo Siro. Questa prima fondazione venne distrutta dalle violente incursioni longobarde che si registrarono alla fine VI secolo; verso il 680 il franco Tommaso da Murienne, godendo dell’appoggio del duca longobardo Faroaldo II di Spoleto e di papa Giovanni VII, ricostituì una comunità di benedettini sui resti del vecchio insediamento e innalzò una nuova chiesa intitolandola a S. Maria di Farfa. L’influenza economica del monastero accrebbe con i successivi abati Auneperto, Lucerio e, soprattutto, con Probato, che governò dal 769 al 779.

Nei primi decenni del VIII secolo, l’abbazia iniziò ad ampliare i confini dei propri possedimenti oltre il territorio reatino e, ad occidente, raggiunse l’area cimina ed il distretto tuscanese.

Le prime attestazioni della presenza farfense nel viterbese risalgono all’anno 766, sotto il regno del longobardo Desiderio e di suo figlio Adelchi, e sono relative a due atti con cui l’abate Alano acquistò alcune vigne che sorgevano in un vico alle falde del Monte Palanzana (doc. 67 e 69 Reg. Farfense).

Con la conquista dell’Italia longobarda da parte di Carlomagno nell’anno 774, l’abbazia venne assoggetta al solo potere imperiale, escludendola da qualsiasi controllo vescovile e civile; le esenzioni e le immunità assicurate dal privilegium carolingio le consentirono in breve tempo di guadagnare uno smisurato patrimonio fondiario ed immobiliare in tutta l’Italia centrale.

La Tuscia viterbese, seppure nominalmente assoggettata alla Chiesa romana, continuò a risentire lungamente dell’influenza diretta dell’impero e di questa particolare condizione approfittarono i farfensi per consolidare le loro proprietà e per fondare nuove comunità periferiche, chiamate «celle», che avevano la funzione di amministrare in loco il complesso sistema di aziende curtensi dipendenti dal monastero sabino.

 
 

UNA SUCCURSALE NEL CASTELLO DI VITERBO

A Viterbo la più antica colonia monastica farfense
 era ubicata all’interno del Castrum, a ridosso del costone che dominava la Valle di Faul. Il suo nome era S. Maria della Cella e lo incontriamo per la prima volta nel privilegio con cui l’imperatore Carlomagno confermò ai monaci i beni posseduti nel ducato di Spoleto, in Longobardia, in Romania[1] e nella Tuscia: “… confirmamus etiam eidem monasterio omnes res que pertinent … in castro Viterbense infra ipsum castrum cellam Sancte Marie.” Sebbene il diploma imperiale sia datato 801, si tratta di un documento redatto in epoca assai posteriore, intorno alla fine del X secolo.[2]

La chiesa è nuovamente menzionata nel 920, regnante papa Giovanni X e l’imperatore Berengario, a proposito di certe rendite derivanti dall’affitto di un terreno presso il casale Fagiano.[3]

La piccola comunità era guidata da un preposto che aveva il compito di rappresentare l’abate nei contratti e nei rapporti con i coloni, dai quali riscuoteva gli affitti dei fondi e le prestazioni in natura. La sua competenza copriva un ampio circondario che nei documenti dell’epoca è nominato come curte nostra viterbiensi.

Nel raggio di pochi chilometri dal castello di Viterbo esistevano altre chiesuole dipendenti dalla casa madre reatina; erano S. Pietro nel vico Antoniano,[4] S. Martino al Monte,[5] S. Maria[6] e S. Alessandro in vico Flaiano[7] e S. Valentino in Burgo,[8]quest’ultima custode delle spoglie dei martiri Valentino ed Ilario che, nell’anno 829, vennero trasferite a Farfa per essere deposte nella nuova cappella di S. Salvatore fatta erigere dall’abate Siccardo.[9]

Gli interessi dei monaci nell’area erano così vivaci che nell’806, presso il castro Viterbiensi, si tenne un pubblico giudizio per redimere una controversia circa un lascito testamentario che aveva spogliato di ogni eredità un giovinetto di nome Leone a vantaggio dell’abbazia. Il collegio giudicante, presieduto da un certo Duca Romano,[10] emise un salomonico verdetto che divideva per metà il retaggio tra il fanciullo e i benedettini.

Sul finire del IX secolo, le continue incursioni saracene nella Sabina provocarono la lenta rovina di Farfa, che nel 898 venne abbandonata dai monaci. La sua rinascita si ebbe negli anni fra il 930 e il 936; con l’abate Ugo la comunità si aprì alla riforma cluniacense e durante la lotta per le investiture si schierò attivamente con il potere imperiale avviandosi ad un nuovo periodo di splendore e prosperità. Grazie ad un’accorta politica di acquisiti e permute, gli abati che si successero negli anni seppero recuperare e rinsaldare l’enorme patrimonio abbaziale che, al suo apice, poteva contare 683 chiese, 132 castelli, 7 porti, 8 saline, 14 villaggi e 2 città, su un territorio che andava dalla Lombardia all’Abruzzo e dall’Adriatico alle coste del Tirreno laziale.


Nell’anno 1051 papa Leone IX riconosceva a Farfa tutti i suoi beni e privilegi
. Per quanto riguardava la Tuscia, ribadì il possesso “… in civitate Ortana ecclesiam Sancti Theodori integrum, in Viterbe ecclesiam Sancte Marie in integrum, in Tuscano cellam Sancte Marie iuxta fluvium Minionem cum guado …

Più dettagliata e completa la ricognizione contenuta nel diploma del 1118 con cui l’imperatore Enrico IV riconosceva all’abbazia le chiese viterbesi di Sancte Marie [della Cella], Sancti Angeli, Sancti Alexandri, Sancte Marie in vico Flabiano, Sancti Petri in casale Antoniano.


Dall’elenco è scomparsa S. Valentino in Borgo, già acquisita dal vescovo di Viterbo;[11] mentre appare per la prima volta la chiesa di S. Angelo, con buone probabilità identificabile con l’oratorio presso il Monte Fogliano.[12]

A Viterbo, i monaci sabini possedevano anche la metà della chiesa di S. Simeonecum suo circuitu, donatagli intorno alla metà del XI secolo da un tale Girardo.[13] Sempre nello stesso periodo vantavano diritti anche sul pianoro di Pianoscarano e sulla chiesetta di S. Pellegrino, che in seguito transitò sotto la giurisdizione di S. Martino al Cimino.

Non mancarono tentativi, da parte dei signorotti del contado, di usurpare le proprietà abbaziali. Nella primavera del 1083, Rolando e Guido di Salci, un castello non distante da Viterbo, furono chiamati dall’abate Berardo a rispondere dinnanzi all’imperatore Enrico IV di certe loro occupazione illecite; l’impegno alla restituzione di quanto sottratto, assunto dai due davanti alla corte imperiale, non venne però mantenuto e ne seguì una lunga querelle che rimase irrisolta.[14]

 
 

S. MARIA DELLA CELLA E IL SUO PREPOSTO

Nel 1122 il concordato di Worms sancì la sottomissione dell’abbazia di Farfa all’autorità pontificia, segnando così l’inizio del suo progressivo declino economico e politico.  Persa la defentio imperialissi susseguirono abati ambiziosi o inetti che causarono disordini nel regime disciplinare e contrasti con l’autorità vescovile. Nel frattempo, molti dei possessi del monastero finirono in completo sfacelo e disgregazione.[15]

Gli effetti di questa decadenza dovettero investire, in qualche maniera, anche la dipendenza viterbese di S. Maria della Cella, che nei primi decenni del XII secolo diede in pegno la terra qui dicitur plano Scarano ad un tale Giovanni di Gregolitio.

Nell’anno 1148 la medesima area veniva locata al Comune di Viterbo affinché la si popolasse e vi si erigessero case; le autorità cittadini disponevano, comunque, che al preposto di S. Maria venisse mantenuto il diritto di edificarvi chiese e di riscuotere le relative decime.[16] Ed in effetti, nel novello borgo di Pianoscarano non trascorse molto tempo che si provvide alla fabbricazione di due chiese, una dedicata a S. Nicola[17] e una a S. Andrea,[18] entrambe affidate ad un rettore.[19]

Sempre in questo frangente, i farfensi entrarono in possesso di una chiesuola a sud-est della città, la cui prima menzione certa risale all’anno 1160: S. Michele extra et propre Viterbium, che nei secoli successivi mutò il nome in S. Miele e, quindi, in S. Biele.[19] Tuttavia, sin dal XIII secolo quest’edificio finì con l’essere ceduto in affitto, dapprima al vescovato, poi al canonico di S. Maria Nuova e quindi alle monache di S. Maria del Paradiso che lo tennero fino al ‘400.[21]

Nonostante le difficoltà economiche contingenti e la generale crisi del cenobitismo tradizionale, il piccolo convento di S. Maria della Cella continuò per lungo tempo ad essere il principale centro amministrativo del patrimonio farfense nel viterbese. Da un atto della metà del XIII secolo apprendiamo, tuttavia, che era abitato soltanto dal preposto e da un monaco.[22]

In una bolla di Urbano IV del febbraio 1262 si riepilogano tutte le sue dipendenze che facevano direttamente capo alla chiesa viterbese: … ecclesiam S. Marie de Cella cum S. Andree et S. Nicolai de Plano Scarani, S. Marie de Genestra et S. Salvatoris extra Viterbium ecclesiis et cappellis suiu ad eadem ecclesia S. Maria de Cella dependentibus, et omnibus pertinentiis earumdem.

Nell’elenco si incontra, per la prima volta, la chiesa di S. Maria della Ginestra, oggi S. Giovanni Decollato, ubicata nella Valle di Faul, su un terrazzamento prospicente il costone della Trinità; sconosciute sono le modalità con le quali pervenne ai farfensi.

A fronte delle ripetute istanze degli abitanti della vallata, già nel 1273 il vescovo viterbese la eresse a parrocchia, sebbene la rettoria venisse mantenuta in capo al preposto di S. Maria della Cella, che nel 1280 era un certo Ranuccio; il successivo rettore e preposto, Bartolomeo, fu però allontanato e sostituito da un sacerdote, segno che i rapporti tra curia vescovile e monaci avevano subito una frattura. Nonostante l’intervento di papa Niccolò IV in difesa delle prerogative del rettore di S. Maria della Cella, nel 1293 il vescovo concesse la chiesa di S. Maria della Ginestra ai benedettini del monastero folignate di Sassovivo.[23]

Piuttosto incerto rimane il riconoscimento della chiesa di S. Salvatore citata nella bolla. Non è condivisibile l’identificazione, proposta da di Cesare Pinzi, con l’omonimo edificio affacciato sull’odierna di piazza S. Carluccio;[24] infatti, nel documento papale è chiaramente indicato che si tratta di un edificio posto extra Viterbium. Si può allora ipotizzarsi trattasse di S. Salvatore presso Norchia; anche se la sua primigenia appartenenza ai farfensi è solo presumibile da un atto del 840 nel quale si afferma che l’abbazia possedeva il casale Celsignanus iuxta Bledanum,[25] ovvero una tenuta grossomodo coincidente con lo sperone a sinistra del fiume Biedano dove, in epoca successiva, sorse la chiesa.[26]

Tuttavia, deve rilevarsi che S. Salvatore di Norchia, sin dal 1207, faceva parte del patrimonio di S. Martino al Cimino, nelle cui mani resterà saldamente per oltre tre secoli.[27]

In questo scorcio di secolo, S. Maria della Cella era entrata in possesso anche della piccola chiesuola di S. Paolo, appena fuori Porta di Valle.[28]

 
 

LA RICOSTRUZIONE E LA CONFRATERNITA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE. 

Alla fine del XIII secolo la chiesa di S. Maria della Cella venne abbandonata dai monaci farfensi,[29] tanto che nell’ottobre del 1300 papa Bonifacio VIII ne trasferì le rendite alla Mensa vescovile. Ciò nonostante, ancora per qualche decennio l’amministrazione dei beni restò in capo ad un preposto dei benedettini; nel 1333, infatti, questi cedette i diritti della chiesa e di S. Paolo in Valle al rettore di S. Niccolò di Pianoscarano per un periodo di sei anni.

Nel 1336 il vescovo Angeli permutò una casa in contrada S. Faustino con altra presso la Cattedrale che fece demolire per farne piazza e ingresso a S. M. de Cella quae ecclesia spectat ad dictum D. Episcopum.[30]

Chiesa e convento subirono danni per il terremoto che colpì Viterbo nel 1349, tanto da minacciare rovina.[31] Provvidenziale fu nel 1470 l’intervento del vescovo Pietro de’ Gennariche fece ricostruire completamente la chiesa riconsacrandola con un altro titolo; così l’episodio è ricordato nelle cronache cittadine: In quel tempo … il reverendo prete Pietro di Francesco fe’ scarcare da fondamenti la chiesa di S. Maria della Cella e fella riedificare di novo sotto il nome di S. Maria del Popolo nell’istesso luogo a canto il Vescovato.[32]

In realtà la nuova titolazione non venne mai riconosciuta dai viterbesi che presto ripristinarono l’uso di quella originaria.[33]

Nel 1472 il successivo vescovo di Viterbo, Francesco Maria Visconti, fece innalzare nel mezzo della chiesa una preziosa edicola dedicata al Santo Sepolcro.


Nel 1550
 il cappuccino Giovani da Pontremoli fondò la fratellanza della Immacolata et Salutifera Conceptione della sempre Vergine Maria che l’anno successivo prese sede presso la chiesa di S. Maria della Cella dietro il pagamento al vescovato del fitto annuale di uno scudo; per edificare la residenza dei confratelli si provvide ad utilizzare l’area di un attiguo orticello.

Nel giro di pochi decenni, grazie ai lasciti e ai contributi dei consoci, la Confraternita dell’Immacolata Concezione divenne una delle più ricche della città e poté dedicarsi a numerose opere di carità, oltre al soccorso delle vedove e alla creazione di un fondo per le doti delle zitelle povere.

Nel 1567, grazie all’intercessione del canonico Alcide Tignosini, messer Ottaviano Degli Spiriti donava alla chiesa di S. Maria della Cella le reliquie della Terrasantaereditate dallo zio vescovo di Cesena e Patriarca di Gerusalemme.[34] La solenne acquisizione avvenne il giorno 8 di settembre alla presenza del vicario generale del Cardinal Gambara, vescovo della città, che mostrò al numeroso pubblico di fedeli accorso all’evento le ventotto teche contenenti i sacri cimeli, tra cui la terra raccolta sul luogo dove nacque la Vergine Maria e i resti della pietra sulla quale Cristo sostò durante il digiuno dei quaranta giorni. Tutte le custodie vennero quindi riposte nell’edicola del Santo Sepolcro, sotto la lastra dov’era rappresentata la figura di Gesù giacente nella tomba.

Nel 1576 la fratellanza viterbese veniva aggregata all’Arciconfraternita dell’Immacolata Concezione residente nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso, a Roma.

Nel 1605 la chiesa venne radicalmente restaurata e fu allora che la facciata, sino a quel momento rivolta verso il vescovado, venne spostata sul lato opposto, in direzione dell’Ospedale Grande degli Infermi.[35] Dai registri della Confraternita emergono annotazioni riguardanti l’affidamento ad artisti di un certo rilievo di lavori per l’abbellimento della chiesa e per la pittura degli stendardi del sodalizio. Nel 1606, ad esempio, furono pagati 5 scudi per il gonfalone disegnato dal pittore maceratese Camillo Donati, noto per gli affreschi della sala comunale di Tarquinia e per alcune lunette del chiostro di S. Maria della Quercia. Nel 1655, invece, lo scultore Monsù Natale fu incaricato di costruire una nuova cappella nella chiesa; d’origine francese ma operante a Roma, Monsù, pochi anni prima, aveva realizzato alcuni stemmi a decoro della nuova Porta Romana.

Nel XVIII secolo la Confraternita della Concezione conobbe una progressiva diminuzione delle elargizioni, tanto che le sue risorse patrimoniali potevano soddisfare soltanto il mantenimento delle doti matrimoniali e le esigenze di culto dei sodali. Nel Registro dei “Segreti, risoluzioni, memorie della Compagnia dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria, detta della Cella” (anni 1700-1775) è contenuto il resoconto del viaggio a Roma in occasione dell’Anno Santo del 1700; inoltre, viene ribadito che nelle processioni i confratelli dovevano indossare, oltre al sacco biancoil rocchetto ed il cordone turchino, uso che era andato perduto “da alcuni anni in qua“.

 
 

IL CAMPANILE LONGOBARDO

Nel 1891, così come le altre congregazioni cittadine, anche quella dell’Immacolata Concezione venne soppressa e spogliata dei suoi beni. La chiesa di S. Maria della Cella, ormai sconsacrata, nel XX secolo venne utilizzata come ambiente di servizio dell’Ospedale Grande; dimezzata in due piani, fu adibita a legnaia e quindi, in tempi più recenti, a locale per l’inceneritore. Oggi, l’edificio è pressoché indistinguibile dal resto dell’agglomerato edilizio del vecchio nosocomio che affaccia su via S. Clemente; il lato sulla piazza della Cattedrale è stato, in parte, investito dai lavori di realizzazione dell’ascensore che sale da Valle Faul.

Se il corpo di fabbrica della chiesa è abbandonato a se stesso, a fianco della Loggia Papale, invece, svetta un elegante campaniletto a pianta quadratastraordinaria vestigia della struttura medievale benedettina. In origine doveva avere altri livelli, così da essere più alto e slanciato; l’inconsueta copertura, a tetto e a vela, è frutto di restauri posteriori che ne hanno alterato la linea.

Secondo alcuni studiosi, le colonnine delle bifore del secondo livello e l’uso del laterizio presentano importanti analogie con il colonnato del chiostro di S. Maria Nuova e con il più antico campanile di S. Sisto. Ciò ha indotto a proporre una datazione altomedievale del manufatto, tanto che in alcuni testi lo si descrive impropriamente come «longobardo»; è tuttavia più prudente e corretto posticipare la cronologia alla fine dell’XI secolo.

Interessanti le osservazioni dell’archeologo Apollonj Ghetti circa possibili influenze del linguaggio architettonico bizantino e meridionale riscontrabili nelle arcate «a mo’ di ferro di cavallo» delle bifore.

 

di Ser Marcus de Montfort

Questo documento può essere riprodotto e diffuso citando la fonte e l’autore.

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Note:

[1] La Longobardia era il territorio longobardo conquistato da Carlomagno, mentre con Romania si identificavano i territori romano-bizantini (Esarcato e Marche).

[2] Chronicon Farfense, Vol. I, p. 191. Il documento è forse una riproduzione alterata e piena di interpolazioni di un più antico originale.

[3] Chronicon Farfense, Vol. I, p. 302.

[4] Primo riferimento nell’anno 821 (doc. 253 del Regestro Farfense). Probabilmente era il primo nucleo di S. Pietro dell’Olmo in via Cardinal La Fontaine, che fu parrocchia dal XIII secolo al 1558. Nel 1634 fu incorporata nel coro della nuova chiesa dei SS. Giuseppe e Teresa.

[5] Sorgeva in località “Casa Putida” (S. Martino al Cimino) ed è menzionata in un documento dell’838 (doc. 283 del Regestro Farfense) in cui un certo Benedetto ne fa donazione, assieme ai diritti su S. Maria e S. Alessandro in Vico Flaviano, all’abate Siccardo di Farfa. Nel XI secolo, resisi autonomi dalla casa madre, i monaci si trasferirono in loco qui appellatur Novelletu, dove fondarono una nuova chiesa, embrione della futura abbazia di S. Martino al Cimino.

[6] La tradizione identifica S. Maria in Fagiano come il nucleo originario della successiva S. Maria della Palanzana; tuttavia, è probabile che sorgesse a sud di Viterbo, nell’attuale contrada Fagianello, un vocabolo rurale compreso tra la strada Filante e la Sammartinese. La prima notizia è del 766 e S. Maria viene indicata quale oratorio fondato qualche anno addietro da Anselmo da Viterbo e successivamente donato a Farfa.

[7] Citata per la prima volta nel doc. 283 del Regestro Farfense datato 838, della chiesa di S. Alessandro si perse molto rapidamente ogni traccia, tanto che non è possibile risalire alla sua esatta dislocazione. Probabilmente, doveva trovarsi nella contrada detta ancora oggi Torre del Guercio, a est della località Ponte di Cetti, tra la SS Cassia Sud e la strada Tobia. Quest’area nel medioevo era detta Valle o Tribuna di S. Alessandro.

[8] La chiesa di S. Valentino, citata a partire dal 788 (doc. 145 Reg. Farfense) sorgeva nei pressi del ponte Camillario, luogo del martirio dei santi Ilario e Valentino. Attorno al complesso cultuale si sviluppò, favorito dalla vicinanza della Cassia, un popoloso borgo. Dopo il saccheggio dell’abitato, operato dai viterbesi nel 1137, la chiesa fu concessa all’arciprete di S. Lorenzo che la ricostruì; nel 1188 la ritroviamo sotto il titolo di S. Maria in Silice. Oggi ne rimangono solo pochi tratti murari in un caseggiato in località Ponte del Diavolo.

[9] La traslazione è indubitabilmente documentata dai codici farfensi e cassinesi. Tuttavia, le cronache viterbesi e altri resoconti attestano che nel 1303 le reliquie dei due santi vennero rinvenute nella chiesa di S. Valentino, ormai distrutta, e portate nella cattedrale di S. Lorenzo. Questa evidente contraddizione viene spiegata da alcuni storici ammettendo che la spoliazione operata dai farfensi non era stata totale; le teste dei due martiri vennero “dimenticate”, così che poterono essere ritrovate nel XIV secolo (eorum capita cathedralis ecclesia summa veneratione conservat). Altri autori ritengono, invece, che i resti corporei conservati nella cattedrale non appartengano affatto ai ss. Valentino ed Ilario.

[10] Molto è stato scritto su questo personaggio. Alcuni lo hanno considerato un ufficiale pontificio (Muratori e Pinzi), altri un vassallo franco, signore di Tuscania, oppure duca di Spoleto; l’Orioli parla invece di un duca di Arezzo al quale spettò il Comitatus Viterbiensis. In una lettera scritta da Adriano I a Carlomagno alla fine del VIII secolo sono menzionati i duchi Costantino e Paolo assieme ad un certo Romano, del quale non si specifica il titolo; potrebbe forse trattarsi del duca che tenne il placito a Viterbo nell’806. Chronicon Farfense, Vol. I, p. 172.

[11] Era ancora presente tra i possedimenti farfensi nel diploma di Ottone I del 967: cellam Sancte Marie infra castrum Veterbense et ecclesiam Sancti Valentini in Burgo cum eorum omnibus pertinentiis.

[12] Piuttosto controversa è la tesi che vorrebbe far risalire la donazione della chiesa al VIII secolo per volontà dei coniugi Cuntario e Occliauia. A. Ciarrocchi, Storia e società a Civita Castellana in un contratto altomedievale, in Biblioteca e Società. L’appartenenza della chiesa a Farfa è però confermata da atti successivi, ad esempio la bolla di Innocenzo IV del 1254 con cui si intimava al Comune di Viterbo di restituire all’abbazia sabina l’oratorio e i beni sul Monte Fogliano.

[13] Doc. 1282 del Regestro Farfense. Si trovava sull’omonima piazza, alla fine di via dell’Orologio Vecchio e venne demolita nel 1876 per volere del Comune poiché minacciava rovina e costituiva «sconcio nel centro della città».

[14] Il giuramento alla restituzione avvenne presso il campo imperiale alle porte di Roma (prope urbem Romani iuxta pusterulam ad Pertusum, intus tentorium domni Henrici regis). Doc. 1077 e 1078 Reg. Farfense.

[15] Nel corso del XIII, numerosi furono i tentativi dei papi di riportare l’ordine nell’abbazia ((Onorio III e Innocenzo IV), ma risultarono inefficaci. La crisi del cenobio sabino venne aggravata dalla forte fiscalità imposta dalla Camera Apostolica, soprattutto nel periodo avignonese; alla metà del XIV secolo si ebbe la scomunica dell’abate per il mancato pagamento delle decime alle casse pontificie. A partire dal XV secolo il papato decise di concedere l’abbazia in “commenda” a membri dell’alta nobiltà romana (Tomacelli, Orsini, Barberini).

[16] Perg. 133 Arch. Comunale.

[17] La prima citazione del 1152 è tratta da una pergamena dell’archivio di S. Sisto in cui si riferisce di una casa situata in vico Biterbo in planu Sancti Nicolai. In un documento del Liber IV Clavium del 1222 è chiaramente nominata la chiesa di S. Nicolai de Plano.

[18] La prima menzione risale solo al documento n. 131 del Liber IV Clavium, datato 1230, riferito ad una casa posta in hora S. Andree Plani Squarlani. Lo stile architettonico della chiesa rimanda, tuttavia, alla fine del secolo precedente.

[19] Ad un compromesso del 4 aprile 1236 intervennero i rappresentanti del clero cittadini, compresi i rettori di S. Nicola di Pianoscarano e di S. Andrea.

[20] La chiesa sorgeva a sinistra della torre di S. Biele. Nel 1254 Innocenzo IV confermò la giurisdizione di Farfa sulla chiesa. Nel 1574, ormai caduta in rovina, venne unita alla parrocchia di S. Maria delle Farine. Nel 1612 risulta ormai crollata. La sua definitiva demolizione avvenne intorno al 1840, quando fu incorporata in un villino.

[21] Ancora nel XVI secolo doveva essere proprietà di Farfa, in quanto nel 1508 si nomina un livellario del palazzo e dell’orto annesso alla chiesa. A. Carosi, La chiesa di S. Michele presso la torre di S. Biele in Viterbo, in Medioevo Viterbese.

[22] C. Pinzi, Chiesa e Confraternita di S. Maria della Cella di Viterbo, p. 8.

[23] Nel 1450 passò al Terz’Ordine Francescano e nel XVI secolo ai Minori Osservanti e quindi alla Confraternita della Misericordia, la quale ne mutò il nome in S. Giovanni Decollato. Oggi è sconsacrata.

[24] C. Pinzi, Chiesa e Confraternita di S. Maria della Cella di Viterbo, p. 6.

[25] Chronicon Farfense, Vol. I, p. 206.

[26] E. Colonna di Paolo, G. Colonna, Norchia, Vol. I, p. 22.

[27] S. Salvatore venne concessa a S. Martino al Cimino da papa Innocenzo III con bolla del gennaio 1207.  Nel XIV era un vero e proprio monastero nei cui pressi sorgeva un borgo fortificato. Nel 1323 l’abitato venne devastato da Turella Capocci nell’ambito della guerriglia che infiammava le fazioni viterbesi; la chiesa fu quindi ricostruita e dopo i radicali restauri del XVII secolo, nel successivo venne abbandonata. Oggi rimangono i resti di un edificio a pianta rettangolare, con un’unica abside, e tracce architettoniche di un impianto più antico di maggiori dimensioni. Cappa, Dobosz, Vittori, Insediamento ipogeo di S. Salvatore sul Biedano.

[28] Era posta nei pressi dell’Urcionio, subito dopo un ponticello, ai margini del campo del Salamaro. Alla fine del XV secolo era già in rovina.

[29] Nel 1289 ancora si ha una lettera dell’abate di Farfa nella quale si esortano i rettori di S. Andrea, S. Niccolò e S. Maria della Ginestra, affinché obbediscano al preposto di S. Maria della Cella (Arch. Catt. doc. 134B); del 29 agosto 1291 è la bolla di papa Niccolò IV con cui concede l’indulgenza alla chiesa di S. M. della Cella.

[30] Signorelli, Viterbo nella Storia della Chiesa, II, parte I, p. 396.

[31] Apollonj Ghetti, Antica Architettura Sacra nella Tuscia, p. 288.

[32] Della Tuccia, cronaca di Viterbo, p. 99.

[33] Pinzi, Ospizi Medievali, p. 27 n. 3.

[34] C. Pinzi, Chiesa e Confraternita di S. Maria della Cella di Viterbo, p. 13 e segg.

[35] Signorelli, Viterbo nella Storia della Chiesa, vol. II, parte II, p. 368. L’ipotesi è confermata dalle piante prospettiche di fine ‘500 dove si vede chiaramente che la chiesa aveva ancora il prospetto rivolto al Palazzo Papale e agli edifici vescovili.

 
 

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